L'archeologo Giovanni Ugas risponde ad un intervista "blog Gianfranco Pintore"

domenica

Il saggio del professor Giovanni Ugas (diviso nelle tre parti El Ahwat e gli Shardana nel Vicino Oriente, Qui stavano gli Shardana, Architettura e ceramica Shardana nel Vicino oriente) ha suscitato numerose domande in molti lettori. Le ho sintetizzate, spero correttamente, per porle a Giovanni Ugas che risponde in questa intervista.

1.Il suo saggio su Shardana e el Ahwat sta suscitando, come è ovvio che sia, molto interesse e reazioni che vanno dall'incredulità alla cauta accettazione, dall'incoraggiamento all'attesa del suo libro sugli Shardana. Si attendeva qualcosa di diverso?

Mi attendevo esattamente questo. Ho presentato lo studio El Ahwat e gli Shardana nel Vicino Oriente  in questo Blog non solo perché me lo ha chiesto Gianfranco Pintore ma anche con un preciso intento divulgativo data la scarsa accessibilità dell’articolo, pubblicato nel 2008 in un volume israeliano. Dunque non posso che essere grato ai lettori e mi scuso per il fatto che non mi è possibile rispondere  a ogni singola domanda e a ogni commento. Questo mio lavoro ha il fine, come del resto lo avrà quello più generale sugli Shardana, di fare il punto sulla situazione degli studi e sulle problematiche relative al primo e più importante  “popolo del mare.
Nell’ottica di una prospettiva di identificazione  tra gli Shardana e i Sardi non può essere certo trascurato, come sinora è avvenuto, il tema  delle relazioni archeologiche tra la Sardegna e il Vicino Oriente (e l’Egitto) durante l’età del Bronzo.  Si è solo all’inizio di una ricerca che, comunque, non è limitata ai soli dati presentati nell’articolo in forma abbreviata e per di più non documentati adeguatamente sul piano iconografico. Io ho cercato semplicemente di aprire, grazie anche all’Università di Haifa e in particolare ad Adam Zertal, la porta di un cammino difficoltoso che risente dello stato non ottimale della ricerca in questo campo poiché sino a un decennio fa nessuna missione archeologica sarda ha operato in contesti del Vicino Oriente. Il mio non è un punto d’arrivo ma di partenza  e tuttavia non posso esimermi dal trarre le prime conclusioni.

2.Comincerei dal riassumerle le posizioni di chi è decisamente contrario alla tesi che nel saggio ha sostenuto, sperando di essere fedele a quanto scrivono i suoi critici. Lei fa partire gli Shardana dalla Sardegna, mentre invece essi – si sostiene – sono arrivati qui intorno al XIII secolo. E dunque, mentre per lei gli Shardana erano sardi, per i suoi critici no, lo diventarono dopo il loro arrivo nell'Isola. Perché ha ragione lei e torto i critici?

Accennerò soltanto a qualche aspetto di questo argomento che è il più importante e il più complesso della vicenda degli Shardana. Quasi tutti gli studiosi (non solo sardi!) sono convinti che tra la Sardegna e gli Shardana esista una relazione, ma si dividono sul quando e sul come si è stabilito questo rapporto. Vi sono due orientamenti prevalenti:
a) Gli Shardana sono i Sardi costruttori dei nuraghi;
b) Gli Shardana hanno la loro patria altrove; i fautori di questa ipotesi a loro volta si disperdono in vari rivoli, individuando la loro terra ora in Illiria, ora in Tracia, Colchide, Asia Minore, Siria o Cipro, Grecia, centro Europa, e ritenendo che essi soltanto dopo aver combattuto contro Ramesse III, dunque non prima degli inizi del XII secolo, si siano rivolti in Occidente con altri popoli del mare (Sikali e Shekelesh, Tursha) e abbiano assegnato il loro nome alla Sardegna, all’Etruria e alla Sicilia.
Altri ancora sostengono che gruppi di Shardana abbiano raggiunto la Sardegna, già nel XIII secolo, portando con sé le grandi innovazioni culturali proprie del mondo miceneo.
Su queste questioni basilari ho avuto modo di esprimermi  fin dal 1980 in diversi articoli. Il primo è che gli Shardana non possono essere arrivati in Sardegna da un’altra terra  tra il XVI e il X secolo a.C. perché dal circa il 1600 a.C. la  società nuragica è solida e non registra cambiamenti strutturali, bensì solo alcuni significativi mutamenti culturali legati ai rapporti, ben documentati dall’archeologia, con le altre regioni del Mediterraneo. Tali rapporti non giustificano in alcun modo l’avvento, che dovrebbe essere rivelato anche dall’antropologia,  di una nuova etnia  in Sardegna. Per intenderci, Iliesi, Balari e Corsi, le principali popolazioni sarde che affrontarono Cartaginesi e Romani dell’età storica, si trovavano nell’isola  prima del 1600 e se seguiamo un passo di Pausania, fin dal Neolitico l’isola derivò il nome da Sardo guida dei Libi, poiché questi <<raggiunsero l’isola per primi via mare, abitando in capanne e caverne>>.
Stando alle attestazioni epigrafiche e alle fonti mitografiche e storiche, nessun popolo vanta un nome affine a quello degli Shardana tanto antico quanto quello dei Sardi della nostra isola. Cito ad esempio: il passo, già menzionato, di Pausania relativo alla antichissima denominazione dell’Isola dall’eroe eponimo Sardo;  il termine Shrdn dell’iscrizione di Nora datata alla fine del  sec. IX;  l’assedio dei Sardi a Creta difesa da Talos (XIII sec.);  il richiamo di Omero al riso sardonico in rapporto alle vicende di Ulisse (fine XIII-primi decenni sec.  XII).
Certamente non possono vantare una simile antichità i Lidi di Sardi dell’Asia Minore, città fondata non prima del sec. XII e  nota con tale nome solo a partire del VII secolo. Peraltro Sardi è una  città di cui si ignora la formazione precisa del nome e ciò vale anche per Sardessos e di altre città  anatoliche che richiamano il nome degli Shardana di cui non si conosce l’origine precisa. Alla stessa stregua non possono essere anteposti  i Sardeates dell’Illiria, noti solo in età romana, nè Serdica, l’antica Sofia in Bulgaria (Tracia), conosciuta soltanto in tempi tardo antichi.
Del tutto ignorati risultano gli Shardana nella letteratura greca e nei documenti ittiti in riferimento a popoli dell’età del Bronzo e del I Ferro della Grecia, Anatolia, Creta e Cipro. Per i Colchidi di Medea e di Eeta esiste solo il richiamo al lino sardonico in Erodoto (V secolo). D’altra parte gli Sherdanu o Sirtanni/Sirdanni conosciuti nel Vicino e medio Oriente sono stranieri e non popolazioni locali del Libano (Biblo) e della Siria (Ugarit).
Nessun altro popolo può vantare tante affinità con gli Shardana  quanto i Sardi dei nuraghi: abitavano un’isola al centro del mare, erano  avvezzi ai compiti di guardia e al combattimento, in particolare  erano formidabili spadaccini,   erano esperti nell’architettura  militare, calzavano elmi cornuti e vestivano gonnellini corti o a coda, erano di stirpe rossa. I Sardi, con le loro notevoli risorse proprie (derrate alimentari, argento ed altro) o acquisite (lingotti ox hide in rame), potevano mantenere consistenti forze militari.  Peraltro, la civiltà nuragica è al massimo del suo sviluppo quando i grandi regni  dell’Egeo, dell’Egitto e dell’Anatolia  decadono e vanno in crisi. Va aggiunto, in merito alla questione dell’identificazione con gli Shardana, che tra le tante ragioni, le motivazioni contrarie al riconoscimento con gli altri popoli sono ben più numerose e negative rispetto alle ragioni adducibili per negare l’identificazione con i Sardi dei nuraghi.
Tutto ciò si può sostenere  grazie soprattutto ai ritrovamenti degli scavi nuragici che documentano armi (spade, proiettili da fionda, cuspidi di frecce, lance) ma anche manufatti per la conservazione e l’uso degli alimenti; stoccaggio delle riserve per i periodi di crisi o di guerra, etc.) Né vanno trascurati: gli aspetti formali e le tecniche dell’architettura difensiva  dei nuraghi (ubicazione strategica, torri con feritoie, terrazzi su mensole,  rifasci, proiettili, riserve d’acqua, silos);  le analogie delle particolarità costruttive dei nuraghi (corridoi, porte) con le fortificazioni egee e anatoliche; le fonti letterarie che fanno riferimento sia  agli Iolei (Iliesi)  governati da re, vale a dire i capi tribali, sia al già citato assalto dei Sardi a Creta, sia alla flotta di Phorkys re della Sardegna che combatte contro Atlante.  Di sicuro non si addice alla civiltà nuragica un popolo dedito alla contemplazione spirituale nei templi  e che non conosce le armi.
Tutti questi elementi indiscutibili, non teorici ma reali, concorrono ad affermare senza incertezze  che i nuraghi erano residenze fortificate di capi e che quelli più articolati, dotati di cinta esterna, erano dei veri e propri palazzi con una guarnigione di soldati, non diversamente dai principotti egei e del Vicino Oriente.  Per certo i nuraghi non erano templi  perché se così fosse, tralasciando per brevità le altre ragioni,  negli strati archeologici del Bronzo medio e recente di questi edifici  (secc. XVI-metà XII) avremmo dovuto trovare le raffigurazioni delle divinità, anche aniconiche, e gli altari e le offerte rituali, ma non è così. Nei nuraghi, come a Su Mulinu di Villanovafranca, Nurdole di Orani etc.,  questi elementi di sacralità si trovano soltanto a partire dal IX secolo, dopo la caduta dei capi tribali,  il loro abbattimento almeno parziale e la costruzione delle case sopra o a ridosso delle muraglie, non prima. Sono dati di fatto, non ipotesi, e anche se qualche studioso tende a rialzare  la cronologia di tali materiali  del I Ferro sino al XII-XI  secolo (creando inconciliabili anacronismi con i coevi contesti dell’Etruria!), non cambierebbe la sostanza delle cose riguardo alla funzione  di residenza  “palaziale” svolta in precedenza, per svariati secoli, dai nuraghi. 
Per chi sostiene che i Sardi (con i Tursha-Tirreni) provengono dalla Lidia o dalla Grecia, dove sono i nuraghi in queste regioni, dove altre tracce dei Lidi?  Al contrario, le ceramiche sarde di Kommòs, che certo non erano oggetti di scambio, ma d’uso comune, indicano che i Sardi  frequentavano gli approdi di Creta nel  sec. XIII a.C., mentre il fatto che i lingotti in rame a pelle di bue con i marchi egei si trovano numerosissimi in Sardegna e scarsamente in Sicilia, nell’Italia Peninsulare e nelle altre regioni occidentali, vuol dire che erano i Sardi e non gli Achei e Cretesi che controllavano il mercato del rame in Occidente  e che comunque essi e non altri  tra i popoli occidentali erano in grado di accumulare, come le più grandi potenze mediterranee del tempo, quantità di rame sufficienti per armare un poderoso esercito.  E’ evidente che i Sardi erano ben addestrati alle lunghe rotte in alto mare, dunque erano ottimi marinai e per difendere il rame e gli altri beni trasportati sulle loro navi, dovevano essere attrezzati anche militarmente.  
I più antichi guerrieri a elmo cornuto furono gli Shardana. Nessun popolo dell’est del Mediterraneo  appare prima di loro (non vanno confuse  infatti le immagini della divinità con quelle dei guerrieri dell’Oriente, sistematicamente privi d’elmo cornuto). È  ben noto, peraltro, che in ambito sardo e corso le rappresentazioni  di teste zoomorfe, connesse con le maschere e i copricapi cornuti degli antenati risalgono già a tempi neolitici;  queste iconografie  ricompaiono puntualmente, in una ventata di antropomorfismo, nella bronzistica figurata nuragica del I Ferro e persistono ancora nelle maschere zoomorfe del carnevale sardo, specialmente barbaricino.


3.Altra obiezione è quella che riguarda, diciamo così, la natura shardano-nuragica di el Ahwat. È di due tipi: la grande differenza che esiste tra i nuraghi e le costruzioni nel villaggio israeliano, maestosi i primi modeste le seconde; il fatto che il materiale trovato intorno a el Ahwat, le ceramiche ad esempio, non è nuragico o è, al massimo, diffuso nell'area dell'Egeo. Come stanno le cose?

Ribadisco che a mio avviso, allo stato attuale delle conoscenze,  nel sito di El Ahwat si colgono influssi di  esperienze  costruttive occidentali, in particolare nelle  volte e nell’uso di massi poligonali  in edifici sopra suolo,  quali  i “tholoi” U461 E 462 fuori le mura. Ciò non basta a sostenere che siamo in presenza di opere  sicuramente nuragiche, cosa che io non ho mai dichiarato, ma neppure a negare i rapporti con l’architettura nuragica, corsa o anche sicula.  
Per questa ed altre ragioni, sono  portato a pensare che el Ahwat, residenza governativa strategicamente ubicata anche controllo della strettoia di Arunah, già teatro delle campagne di guerra di Tuthmosi III, piuttosto che Haroshet goyim,  la capitale dei possedimenti cananei  degli Shardana,  fosse un importante caposaldo militare controllato dagli egiziani in cui operavano anche gli stessi Shardana. Ad  Haroshet goyim, la città di Sisara, come da tempo hanno sostenuto diversi autorevoli storici, identificandola  con qualche centro del retroterra  tra Haifa e Akko, si addice infatti una collocazione diversa. Io ho pensato ad Afeq, tenendo conto degli eventi che portarono alla sconfitta di Saul sul Monte Gelboa, ma non esistono prove certe per nessuna ipotesi.  In ogni caso è probabile che, nell’ambito dei possedimenti Shardana in Cananea, Haroshet fosse ubicata in posizione più centrale, meglio difendibile e più adatta sul piano amministrativo. Il territorio, doveva essere proporzionato al ruolo  rivestito dagli Shardana nel Vicino Oriente e  dunque  più ampio, oltre che più fertile e strategicamente più importante rispetto a quello dei Filistei e dei Sikali, comprendendo  non solo la piana di Megiddo, la fascia del Giordano presso Bet Shean e la Galilea ma anche le zone costiere a Nord dei Sikali, da Habu Awam sino a Tiro e forse Sidone. Proprio la presenza sarda  tra i Cananei  può ben giustificare i successivi insediamenti  Fenici  in Occidente e segnatamente in Sardegna).     
Mi rendo perfettamente conto, l’ho rilevato, che la visibilità degli Shardana è un problema  archeologico molto serio, ma l’archeologia è una scienza giovane e ha tante potenzialità. Dunque non c’è da meravigliarsi se le ceramiche nuragiche denunciano poche e non decisive affinità formali con quelle delle aree  del vicino Oriente in cui  si pensa che si  fossero stanziati per conto dell’Egitto, o in proprio, gli Shardana. È  invece diversa la questione dei pugnali in bronzo rinvenuti a Tel es Saidiyeh  nella valle del Giordano. Sul piano tipologico queste armi si avvicinano agli esemplari  sardi non meno di quelli egei  e va considerato che i guerrieri di questo centro erano anche frombolieri, come i Sardi. Anzi, tenendo presente anche la grande spada di Bet Dagon, sono dell’avviso che il riconoscimento degli Shardana passa soprattutto attraverso i futuri ritrovamenti di armi nelle regioni vicino orientali, segnatamente in Galilea, valle di Yzreel e coste fenicie.


4.Una domanda, molto più specifica, riguarda dislocazione del punto nel quale i Popoli di mare si incontrarono per dare l'assalto all'Egitto e chi potesse disporre delle migliaia di armi necessarie.

È implicito che, se riuscirono a sconfiggere l’Egitto e gli Ittiti, i Popoli del mare erano in grado di procurarsi una notevole quantità di armi e di soldati, e dunque di  disporre delle materie prime necessarie al fabbisogno: uomini, rame e stagno, vestiario e pelletteria, etc. Riguardo ai luoghi in cui i Popoli del mare  si incontrarono per condurre l’attacco all’Egitto, questa è una questione che non può esaurirsi in poche battute poiché  è connessa con l’identificazione  e l’intera vicenda dei diversi popoli delle coalizioni che attaccarono l’Egitto e altre terre dell’Est Mediterraneo.



5.C'è anche chi dubita dell'accostamento che lei fa tra Keftiu e Creta. Che cosa risponde?

L’identità tra Keftiu, Kaptara e Creta  è oramai considerata certa pressoché da tutti gli storici e archeologi moderni. Le ragioni sono numerose e ben argomentate  e io condivido pienamente, sulla base dei documenti  già acquisiti, tale interpretazione, rispetto a chi  privilegia, ad esempio, il riconoscimento con la Cappadocia.


6.  Un altro chiarimento. Secondo la maggioranza degli studiosi, tra i Popoli del mare che affiancarono gli Shardana vi erano i Lukka che risiedevano nel sud-ovest dall'Anatolia, la futura Licia dei Greci, e non già i Liguri, come  lei prospetta, quale è la ragione di questa opinione?

Nella battaglia di Kadesh  del 1287 circa, i Lukka (Lici)  sono menzionati tra gli alleati degli Ittiti  mentre, diversamente,  gli Shardana combattono a favore del sovrano egiziano Ramesse II. In questa e in tutte le altre occasioni, gli Shardana non fanno alleanze  con i popoli anatolici, né allora né poi e non hanno nulla a  che fare con i Lici. Più tardi, le  genti  dell’Anatolia non potevano far parte della coalizione dei Popoli del mare che intorno al 1224 attaccò il sovrano egiziano Meremptah  poiché  erano ancora soggette  o alleate degli Ittiti  i quali avevano già da tempo stipulato con gli Egiziani un patto di  non belligeranza, se non di alleanza vera e propria, che continuò anche durante il  regno di Ramesse III. Più tardo la Licia al tempo di Ramesse III, come le altre regioni costiere meridionali dovette subire gli attacchi dei popoli del mare.
In  ogni caso, il nome Rk che compare a fianco degli Shardana, Tursha e  Shekelesh , da molti studiosi letto Luka (Lici), può ben essere interpretato ancor meglio come Leku  o Liku, cioè i Ligyes Latini, i Liguri.  Se è così come io penso, il quadro storico ha una sua coerenza, diversamente no. 



7. Lei propone una sorta di cesura nella storia degli Shardana,  ponendo a conclusione del regno di Ramesses II  la fine della  loro collaborazione con l’Egitto; ciò  non contrasta col fatto che  durante  il regno del grande faraone e probabilmente anche durante quello del padre Seti I, l’Egitto fu assalito dallo stesso Popolo del mare con navi da guerra ?

Vi sono diversi modi per leggere le dichiarazioni, spesso trionfalistiche, dei faraoni.  Ciò che conta, come sempre sono i fatti oggettivi.  Certo è che gli Shardana fin dall’inizio del regno di Ramesse II sono tenuti in grandissima considerazione e  formano, da soli,  la sua guardia reale. Lo stesso sovrano dichiara che gli Shardana che attaccarono il delta con la loro flotta erano “<<invincibili>>  e <<dal cuore risoluto>>, usando appellativi poco consoni per  il consueto vocabolario che definisce in modo sprezzante  i nemici.  Successivamente  gli Shardana risultano al fianco di Ramesse II non solo a Kadesh ma in tutte le altre azioni di guerra  da lui condotte. Per tutta  la durata del suo Regno l’Egitto non viene  mai attaccato né  dagli Shardana né da altri Popoli del mare. Il quadro delle relazioni muta palesemente quando a Ramesse II succedono altri faraoni, in particolare Meremptah e Ramesse III. Allora per oltre un cinquantennio, insieme ad altri popoli alleati, gli Shardana assediarono  l’Egitto, strappando infine ai sovrani del delta tutti i loro territori provinciali.



8.L'altra grossa questione è riassumibile così: come lei sa, il professor Gigi Sanna ha rilevato su cocci, massi e su una barchetta fittile segni di scrittura riconducibile anche all'area cananea dove si erano insediati, secondo la cartina pubblicata a corredo del suo saggio, gli Shardana che, lei dice, viaggiavano fra Caanan e la Sardegna. La domanda è diretta: possibile che gli Shardana-sardi non si siano impadroniti delle scritture usate nella regione?

Non esistono documenti  archeologici  sardi che presentino segni di scrittura attribuibili all’età del Bronzo ad esclusione  dei  marchi derivati da scritture lineari sillabiche riportati sui grandi lingotti di rame assegnabili al XVI- X sec. a.C, ma la cui produzione sarda è fortemente problematica. Mi spiace dire che non  conosco altri documenti che possano indiziare l’esistenza di un qualsiasi tipo di scrittura tra le comunità sarde di questo periodo. Ciò è pienamente coerente  con quanto si può dedurre sugli Shardana; essi, così come le popolazioni nord africane, non hanno mai rapporti epistolari con i re egiziani o con altri sovrani e, stando anche agli altri elementi,  non possedevano un loro sistema di scrittura.
Può sorprendere, che nonostante i chiari contati con le altre grandi civiltà dell’Egeo, durante l’età del Bronzo,  né in Sicilia né altrove in Occidente, attecchì la scrittura. La ragione è da  ricercarsi in primo luogo, nella  particolare situazione politico-amministrativa. In Sardegna in particolare, un’attenta distribuzione dei beni e delle risorse tra le numerose comunità (7000 nuraghi e 2500 villaggi) doveva  impedire il formarsi di grandi surplus  di ricchezze, facendo venir meno l’esigenza di archivi. Di sicuro i capi tribù non potevano autocelebrarsi  singolarmente in monumenti funerari, anche con testi scritti  poiché essi erano sepolti in tombe collettive, le “tombe di giganti”,  insieme a tutti coloro che appartenevano alla stessa gens , come richiedeva  il regime  politico a successione matrilineare evidenziato dal costume di uccidere i vecchi padri (a cominciare dai capi tribù). L’unica presenza di un segno esteriore di grandezza è la monumentalità della tomba e il segnacolo a forma di betilo. Infatti, i capi tribù  potevano essere formidabili  guerrieri, ma le loro case, i nuraghi, appartenevano alle loro mogli.
Diversa è invece la situazione per  il I Ferro. Negli scavi sono stati recuperati un buon numero di pesi da bilancia, lingotti in piombo, vasi e altri manufatti con segni di scrittura di origine alfabetica oltre che manufatti con  segni  geometrici connessi con un codice di rappresentazione numerale. Nel IX-VIII secolo, in una società aristocratica imperniata sul governo dei giudici e supportata da strutture santuariali che accumulavano notevoli ricchezze erano  sorte le condizioni per la comparsa di scribi-contabili. Non diversamente dalle altre regioni  la Sardegna dovette conoscere dunque la scrittura. Di questa questione mi sono occupato in alcuni convegni e in un lavoro che sta per andare in stampa.         



9.Un'ultima domanda, personale ma attinente questa questione: segni simili sono in reperti come un coccio trovato nel Negev e uno trovato a Pozzomaggiore. Gli israeliani hanno riconosciuto (con datazioni diverse fra il canaaneo e il protocaananeo) il reperto del Negev; qui perché non si prende in considerazione quello trovato in Sardegna?

Non ho proceduto ad un esame ottico del coccio con l’iscrizione di Pozzomaggiore e ho potuto osservare solo l’immagine riprodotta nel Blog. Poiché  non mi pare che il reperto sia edito (non conosco le condizioni del ritrovamento, dove  il reperto  è conservato e se, e a chi, è stato affidato lo studio), credo opportuno limitarmi soltanto a queste considerazioni: 
a)Il coccio è antico ed è autentico e lo è anche l’iscrizione.
b)L’età  del frammento fittile pare quella nuragica del I Ferro, ma non ho certezza;
c)L’iscrizione, graffita sulla parete interna del vaso, è sicuramente successiva alla sua rottura: si tratta di un’iscrizione su “ostrakon”;
d)Escludo che questo interessante  documento  derivi  da un sistema di scrittura protoalfabetica cananea o sinaitica.




Forse le mie risposte daranno qualche delusione,  ma occorre partire dal presupposto che le diversità di pensiero, al di là della formazione di ciascuno di noi, fanno parte della nostra umanità e poiché l’obiettivo da perseguire per tutti noi è la conoscenza, non serve a nessuno un’egoistica  gara di primato scientifico. L’archeologia è una scienza e per fortuna, per chi pratica questa bella  materia con amore, è anche un diletto;  tutti, dal più grande scienziato al cittadino che  segnala  alla Soprintendenza la presenza di un piccolo coccio, possono dare un contributo alla sua crescita. Serve però un poco di serenità.  Dico questo per coloro che tengono all’archeologia  e non  per gli individui che utilizzano qualsiasi occasione per offendere;  questi individui  pensano che il sapere degli altri serva non a esaltare lo spirito di conoscenza ma a mettere in luce le proprie debolezze.

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